Σάββατο 25 Φεβρουαρίου 2012

G. BOTTAI: VENT' ANNI E UN GIORNO


ΟΛΟΚΛΗΡΩΤΙΣΜΟΣ ΚΑΙ ΔΙΕΘΝΗΣ ΦΑΣΙΣΜΟΣ (Totalitarismo e fascismo internazionale )
Invece del corporativismo, con la sua esigenza d'organizzazione molteplice e snodata di categorie, avemmo il « totalitarismo », furiosamente accentrato: monopolitico. Tutto d'un pezzo. 

Le cose sono conseguenza dei nomi, e non vicever­sa? Sarebbe tentato di crederlo chi, non avendo delle cose seguita la lenta mutazione, ne percepisce la novi­tà solo attraverso un vocabolo nuovo, che all'improv­viso va per la bocca di tutti. Dove si diceva « fascista » o « corporativo », si cominciò a dire « totalitario », senza che ci si rendesse conto di quanto la nuova defi­nizione comportasse di rinuncia ideologica e di pra­tico deviamento dall'originaria qualità associativa del moto. In parte, quella rinuncia, già consumata e ri­flessa in quella definizione ormai corrente; in parte, da essa occasionata e accentuata. L'adesione al Fasci­smo perse ogni carattere volontario, per assumere un carattere grettamente anagrafico. 
Non si vorrà, per certo, ridurre tutto a una questio­ne di parole. Ma, più che a semplice orecchiamento imitativo, deve attribuirsi a segreta insofferenza per le più libere e sciolte forme dell'associazione politica e sociale il fatto che il totalitaire, dai francesi escogi­tato a definire, soprattutto, il massiccio nazismo (e che è, del resto, un barbaro neologismo anche in gallico idioma), passasse senza pagar dazio nel nostro gergo corrente. Prima di noi se n'erano impadroniti i tede­schi, ghiotti, nonostante tutto, di piccanti francesismi: e s'intende, che per essi la definizione calzava a pen­nello con la loro, dichiarata diffidenza pel corporativi­smo italiano. Per noi fu una partita di giro; e, mentre davamo la caccia ai più innocenti francesismi, accet­tammo pari pari questo, che ci veniva sotto specie ger­manica. Così il mondo politico ci apparve diviso in due zone: totalitaria e antitotalitaria. 
Non è solo, ripeto, un dramma verbale. E' con l'introdursi della parola « totalitarismo » nel linguaggio, della propaganda dapprima, dell'elaborazione dottri­naria poi, che la decadenza di quel senso d'organico, di vario, di compaginato dell'unità, che gli aggettivi « fascista » e « corporativo » portano in sé, prende un nome preciso. E noi divenimmo provincia d'un totali­tarismo, estraneo alle originarie ispirazioni del nostro movimento ideale. Ci trovammo tra i piedi tutti i « du­ci » e i « Fùhrer » dell'universo mondo, in fregola au­toritaria. Divenimmo i gerenti responsabili d'una rea­zione che si pretendeva rivoluzione. Ci bastò che un caperozzolo qualsiasi si battezzasse «autoritario », per considerarlo autorevole: e Roma divenne la Mecca di tutti gli aspiranti dittatori, dei vari Mosley e Mussert e Degrelle; e via dicendo. 
Dirizzone, invero, vecchio. Già in alcune mie pa­gine del '25 trovo la prima espressione dell' animo preoccupato, con cui lo seguivo nei suoi primi svolgi­menti. Fu, infatti, in quell'anno che il Gran Consiglio si pose il problema, che fu detto, con termine assai im­proprio e pericoloso per i fraintendimenti cui si presta­va, della « internazionale fascista ». Camillo Pellizzi aveva dato, da Londra, l'allarme: « Che finalmente anche i nostri dirigenti romani s'accorgano potervi essere un senso e una funzione universali nel Fascismo, è cosa destinata a far piacere a noi esuli, a noi senti­nelle avanzate, che sentimmo questa verità quasi per una sensazione epidermica, e questa verità cercammo di divulgare fra i nostri compagni di fede fino da mesi e anni addietro. E' per noi cosa lieta il notare che, finalmente, anche nella Roma fascista ci s'accorge del­'esistenza d'un mondo al di fuori dei confini italiani. Ma preferiremmo che questo primo risvegliarsi ad una più ampia realtà non fosse .immediatamente contras­segnato da una gaffe. Perché è proprio una gaffe il gridare per le gazzette del mondo: — Ora ci poniamo a discutere il problema del collegamento di tutte le cor­renti fasciste in tutti i Paesi "[1]
E io, di rincalzo, avvertivo che tutto ciò che, allo­ra, si scriveva sul valore universale del Fascismo in sé, come idea e dottrina soprattutto, poco o nulla s'at­tenesse a considerare, nella loro concretezza, i cosid­detti « fascismi » stranieri, da quello inglese, per esem­pio, a quello rumeno, da quello tedesco a quello spa­gnolo, sull'essenza dei quali s'avevano ragguagli as­sai vaghi, soltanto giornalistici. 
Due, si diceva, sono gli aspetti della questione: con l'uno noi tentiamo di penetrare il Fascismo nel suo valore sostanziale di pensiero, di morale, di volontà nuova, e! cerchiamo di rintracciarlo nelle sue ripercus­sioni più vaste, lontane, inaspettate, nel pensiero, nella morale, nella volontà d'altri popoli viventi in regimi anche diversissimi, almeno nel nome e nell'apparenza, da quello che il Fascismo è in via d'attuare in Italia; con l'altro noi studiamo i movimenti politici europei e non europei, simili al nostro per certe conformità este­riori d'organizzazione e di programmi, e ci sforziamo di giudicare se e quanto e come possono collegarsi e unificarsi. 
Ed era proprio il secondo aspetto a destare in noi diffidenza e preoccupazione. Non solleticava affatto il nostro orgoglio di fascisti il.fatto che i somatcn spa­gnoli di quei tempi marciassero nella medesima for­mazione dei nostri militi, o che gli orjunassi jugoslavi indossassero la camicia nera con tanto di teschio e pu­gnale, o che i gregari dei fascia nationala romana sa­lutassero, come noi, col gesto dei legionari; o, ancora, che i fascisti inglesi perfezionassero la beffa dell'olio di ricino, usando contro i loro avversari gas pestiferi. Noi ci domandavamo: che cosa, sotto l'apparente simiglianza, ognuno di questi movimenti rappresenta nella storia del suo Paese? E un esame profondo e ri­goroso ci portava a concludere per alcuni all'irridu­cibile diversità, per altri ad una precaria e provvisoria concordanza di motivi di lotta, per altri ancora a una parziale armonia di cause e di effetti. 
Il disegno d'internazionale fascista, concepita com'unificazione, oltre le frontiere, dei vari « fasci­smi », si riduceva, quindi, al nostro esame, a propor­zioni assai modeste, non parendoci possibile, né utile alla genuinità del nostro movimento, convogliare nella medesima corrente di pensiero i più disparati e contrastanti propositi. « Il Fascismo italiano — am­monivamo — non deve e non può diventare il comun denominatore dei più diversi istinti di reazione che fer­mentano nel mondo...  »  [2]
Venendo ad anni, nei quali il più vasto impegno internazionale già si delineava con maggiore evidenza, e precisamente al '33, avendo Mussolini nel suo mes­saggio per il XIV anniversario della fondazione dei Fasci proclamato: « ...le nostre parole d'ordine valica­no le frontiere: la nostra dottrina è ormai universale», noi correvamo ai ripari contro subodorate amplificazio­ni propagandistiche d'un concetto da prendersi con un abbondante grano di sale. Perché era, quella, ammis­sione di tal sorta da influire profondamente sull'ulte­riore corso della nostra azione politica. 
Non sono soltanto le dimensioni di questa, pensa­vamo, che variano in ordine di grandezza; sono.le sue stesse'qualità, il modo, cioè, e lo stile, del suo svolgi­mento, che mutano, salendo a maggiore sfera. Un mo­to rivoluzionario deve, trasferendosi da un popolo ad al­tri, raffinare e rafforzare la sua capacità di convoglia­re ad una meta comune moti diversi, talora dissimili, anche se generati dal medesimo impulso. La stessa ri­voluzione fascista, nella sua portata interna, aveva dovuto passare attraverso l'esperienza dei vari fasci­smi provinciali o regionali, da nord a sud pressoché incomparabili, di movimenti cioè determinati da con­dizioni diverse, prima di confluire nell'unità romana. Valicando le frontiere, lo stesso problema le si poneva: di marciare dal particolare al generale, ma in un qua­dro molto più grande, che esigeva acutezza di sguardo e scaltrita sensibilità. Anche sul terreno internaziona­le, specialmente su di esso, il Fascismo aveva a diffi­dare, con intransigenza avveduta e tempestiva, dei fascismi o filofascismi improvvisati, di dubbia lega, e attenersi a effettive identità, ideali e pratiche. 
Per parecchi anni l'apologia internazionale del Fa­scismo s'era ispirata a motivi di reazione e restaura­zione. Quel che per noi era autorità diventava, per i nostri ammiratori stranieri, tirannìa, sia pure illumi­nata; e un'eguale deformazione subivano i nostri con­cetti d'ordine, di disciplina, di gerarchia. Quasi senza accorgercene eravamo noi stessi restati impigliati nelle reti di molti pescatori di frodo. Mentre avremmo do­vuto rendere ben chiaro a tutti, che il Fascismo era venuto ad operare nella crisi dello Stato moderno, con una sua critica attiva, innovativa, rivoluzionaria e co­struttiva, che lo trasforma in alcuni princìpi domi­nanti, in alcuni rapporti essenziali, in alcune misure e proporzioni della sua funzione, senza ricondurlo, con assurdi rovesciamenti, a concezioni superate per sem­pre; e che voleva operare su di una linea d'avanguar­dia, e non già battere le retrovie della storia. 
Era in noi come un presentimento della confusione ideologica, che avrebbe poi dominato l'Europa di lì a pochi anni, a cominciare dalla guerra civile spagnola. « Non tutte le democrazie — scrivevamo — si presen­tano all'azione fascista nella medesima impostazione. Non esiste la Democrazia: esistono le democrazie, di vario grado e di varia età. Nell'affrontarle, una per una, il Fascismo avrà un comportamento appropriato. Vi sono democrazie, che contengono in sé, per lo meno allo stato iniziale, principi e norme che un'azione ben condotta può utilizzare ai propri fini. Basterebbe ri­cordare qualche passo dell'ultrademocratica e giovane repubblica spagnola o della più stagionata repubblica nordamericana (omissis). Si può fare il caso contrario: di regimi che spacciano falsa carta fascista, torchiata alla macchia da qualche generale disoccupato 0 da qualche ex-presidente in quarantena. Ve ne furono nel passato; ve ne possono essere da un momento al­l'altro, in questo sommoversi di tutte le costituzioni. E' il quarto d'ora delle dittature, di destra o di sinistra o di centro; poliziesche o clericali o plutocratiche. Tutte cercano il comun denominatore in Roma. Ma Roma conosce da secoli questa roba, questa merce d'occasio­ne; e non compra. Le sue dittature non furono mai una vacanza del diritto; ma un rifiorire del diritto, mondato delle sue scorie, restituito alla sua funzione regolatrice e ordinatrice (omissis). Neil'intraprendere il cammino nel mondo queste distinzioni fondamentali possono servire quali direttive di marcia. Bisogna la­vorare nella realtà europea di oggi con un senso reali­stico spregiudicato per costruire la realtà europea di domani (...) ».[3]
C'era, insomma, anche a restarsene su di un ter­reno esclusivamente ideologico, e a voler considerare solo in termini d'ideologia la nostra politica interna­zionale, una distinzione da fare tra le forme più gros­solane del Fascismo, troppo facilmente riproducibili, e quello che fu chiamato il « fascismo involontario », reperibile piuttosto neh' essenza d' orientamenti socia­li ed economici degli Stati moderni. Così m'era possi­bile, pur tenendomi a un metodo rigorosamente scien­tifico, ricercare certi sviluppi dell'idea corporativa nel­la legislazione internazionale,^ e fare un non arbitra­rio parallelo tra la cosiddetta Carta internazionale dèi Lavoro (Parte XIII del Trattato di Versaglia, articolo 427) e la Carta italiana del Lavoro,[5] mettendo in luce connessioni e rapporti dottrinari e giuridici, dimostranti a piacere o la democraticità del Fascismo o la fascisticità delle democrazie. Per una di queste, anzi, l'americana del periodo rooseveltiano del New Deal, il raffronto poteva esser condotto per considera zioni ancora più strette.[6]' 
Ma nel coro totalitario le nostre voci stonavano maledettamente; e i fischi divennero contumelie, quan­do osammo, in piena Sorbona, contaminare la rivolu­zione fascista con la rivoluzione francese, concluden­do un nostro discorso con queste affermazioni scan­dalose: « Lo Stato corporativo è la sola soluzione dei problemi della vita contemporanea, è la forma verso cui tende la sostanza sociale del mondo moderno. Esso deve, dunque, fatalmente essere l'erede e l'assuntore di tutta la storia moderna, che nel suo corso politico e nei suoi ordinamenti giuridici è una conseguenza della rivoluzione francese ».[7] 
Apriti cielo! Le oche capitoline misero denti e ci morsero a sangue. Quest'opera di revisione e di cri­tica, volta a immettere il Fascismo nella circolazione del pensiero moderno, a farlo considerare nel mondo una delle sue correnti più vive e attuali, a staccarlo decisamente dalle rimuginazioni più retrive, appari va una diabolica invenzione. La pietra tombale del totalitarismo premeva sui nostri petti. 

ΥΠΟΣΗΜΕΙΩΣΕΙΣ:

[1] « L'Epoca », Roma, 24-I-'25, L'internazionale fascista.
[2] Giuseppe Bottai, «Pagine di Critica Fascista», a pagina 411, L'Italia e i fascismi all'estero.
[3] «Critica fascista»: I-IV-'33: Domani una realtà europea.
[4] Giuseppe Bottai, «Esperienza corporativa - 1929-1935», Vallec­chi editore, Firenze, a pagina 643, Sviluppi dell'idea corporativa nella legislazione internazionale.
[5] Giuseppe Bottai: La Carta Internationale del Lavoro e la Carta Italiana, edita a cura delia Università Commerciale Bocconi, Mila­no MCMXXX.
[6] « Foreign Affair», July 1935, voi. 13 N". 4, a pagina 612, State intervention fin economie. Corporate State and N.R.A., by Giuseppe Bottai.
[7] Giuseppe .Bottai, « Esperienza Corporativa - 1929-1935», a pa­gina 609, 613, Dalla rivoluzione francese alia rivoluiione fascista. 

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